Elba
L’isola che c’è

Descrivere l’Elba è operazione difficile. Forse, anche inutile! Bisogna scoprirla, giorno per giorno, chilometro per chilometro, baia per baia, rilievo per rilievo, borgo per borgo: come in una Caccia al Tesoro da colonia estiva o da sagra di Paese, occorre una mappa che più che indicare percorsi offra stimoli ai sensi e alimenti la curiosità, una sorta di tomtom dello spirito, invisibile dagli altri.

La terza isola italiana, l’Elba, è un luogo geografico vero. Il suo mare di una straordinaria trasparenza si fa morbida e protettiva ciambella di questa terra mai monotona. È una terra ricca di pietre e di sabbie, arsa e verdissima, dai profili aspri e dolcissimi, abbacinata dal sole che commuove al tramonto, grande eppure senza distanze percepibili, simbolo di una mediterraneità più dolce e meno estrema della terra siciliana, più tonale e meno materica della terra sarda!

Dai luoghi della preistoria (i monti alle spalle del borgo di S. Ilario) alle testimonianze del novecento industriale, si dipana il gomitolo della nostra lunga storia attraverso il tempo degli Etruschi con l’estrazione e la lavorazione del ferro; gli ozi dorati  e gli insediamenti produttivi della Roma dei primi secoli dopo Cristo; il monachesimo insulare dell’ultimo Medioevo; la razionale bellezza del Rinascimento mediceo fino al settecento lorenese; l’esilio di Napoleone, durato appena dieci mesi, che ha proiettato l’Elba in una dimensione universale; la coltivazione delle miniere di ferro, fino alla realizzazione degli Altiforni di Portoferraio. E poi, negli anni Cinquanta, l’intuizione di alcuni pionieri di una nuova economia, l’avvio dell’avventura del turismo che ha colto la vera vocazione di una terra che si offre al godimento dei moltissimi che la scelgono, avendo chiara la necessità della sostenibilità del suo uso!!

Lasciandosi condurre, poi, dagli stimoli sensoriali e seguendo il gusto, gli antichi sapori ancora resistono: la sburrita, il polpo lesso, lo stoccafisso alla riese, le seppie in umido, il totano ripieno, la minestra di tranapecori, gli zerri marinati, la frittura di paranza, il cacciucco, la minestra di pesce e poi il corollo, la schiacciunta e la schiaccia briaca; il tutto innaffiato con vini da antichi vitigni rivisitati da sapienti enologi che ne hanno corretto i difetti ed elevato la qualità:  procanico, ansonica, sangiovese, merlot, moscato e il mitico aleatico. L’olfatto,  poi, si esalta con il salmastro, con le essenze spontanee: rosmarino, nepitella, finocchietto, mentuccia e mille altre fragranze che una natura generosa dispensa; e ancora gli agrumi e, nei sentieri immersi nella macchia,  leccio e  corbezzolo.

Ma è con la vista, più di tutti  il senso anche dell’anima, che si fa il pieno della conoscenza e delle emozioni. È il colore che disegna, separa, ricompone lo spazio che va dagli occhi all’orizzonte: il rosso carminio delle reti dei pescatori, il rosso ruggine delle scarpate gonfie di minerale, il rosso arancio-rosè dei tramonti che cullano i sogni; il verde odoroso delle essenze autoctone, il verde dei cactus ricchi di coloratissimi frutti; il giallo diffuso dei pruni caprini, il giallo profumato delle ginestre; il blu intenso del cielo terso, il blu irripetibile delle barche dei pescatori, il bianco intenso di batuffoli di nuvole che incorniciano l’orizzonte e poi i mille colori di un mare infinitamente bello dove le vele sembrano semplici strumenti per disegnare il vento.

Questa è l’Elba che c’è, quella che più ci piace, quella che tutti dovremmo difendere e conservare.

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